4/22/2017 0 Comments Riga Datazione AgenziaUsare l'assegno. Una guida completa per sapere come usare al meglio gli assegni bancari, come compilarlo correttamente evitando errori e quando usarlo. ELEZIONI L'AQUILA: DI NICOLA (DS), ''BENE PRIMARIE, ORA. Abruzzoweb.it L'AQUILA - "Le primarie della coalizione civico-progressista si sono concluse ed …. Lista libri Titolo: 6 YOGA DI NAROPA Libro intro: Secondo l’insegnamento bKa-‘brgyud-pa, dopo i 4 “preliminari ordinari”1 si praticano i 4 “preliminari. Un libro è un insieme di fogli stampati oppure manoscritti delle stesse dimensioni, rilegati insieme in un certo ordine e racchiusi da una copertina. Il giornalista, scrittore e autore satirico pubblica quasi quotidianamente articoli e commenti. Alessandro Robecchi, il sito ufficiale. Un fantasma si aggira per l’Italia. Parolina di moda per addetti ai lavori, un tempo, più che altro riguardante l’informazione: perché affidarsi alla mediazione di un organo di stampa quando invece ci si può informare sulla pagina Facebook di Gino, o Pino, o Sempronia? Perché leggere analisi e cronache quando il Capo ti sistema con un tweet tutto quello che c’è da sapere? Affascinante concetto. Il Vietnam è un paese strano, misterioso. Sembra sfuggire alla curiosità delle persone, studiosi o turisti, indifferentemente. Oltre la Baia di Halong, di fama. Lamezia Terme (IPA: [laˈmɛʦʦjatɛrme]) è un comune italiano di 70.880 abitanti della provincia di Catanzaro in Calabria. La costituzione del comune di Lamezia. Archeologia e beni culturali del Vercellese, archeologia, beni culturali, musei, museo Leone, ceramica, anfore, scavi, storia, Vercelli, Vercellae. Matteo Renzi ne aveva fatto un suo cavallo di battaglia, naturalmente. Disintermediare, per lui, significava fare a meno dei corpi intermedi, sindacati in primis, che generano confusione, rallentano il paese, mettono in campo spossanti trattative, mentre il modello vincente sarebbe quello dei lavoratori che fanno accordi aziendali, magari singolarmente, qui la pecunia qui il cammello. Ora ecco che con la disintermediazione sul posto di lavoro arriva il carico da undici del grillismo. Dal blog (quello di Genova, non quello di Rignano) arriva il disegno per le future relazioni industriali: basta con il sindacato, vecchio, incrostato, eccetera eccetera, e avanti con la disintermediazione, un luogo di sogno in cui in fabbrica, in ufficio, nel magazzino della logistica, a scuola e, insomma, in ogni posto in cui si scambi tempo- lavoro per salario, “uno vale uno”. Immaginarsi la scena non costa niente: l’operaio del terzo turno che entra nell’ufficio di Marchionne disintermediando la segretaria e dice: “Oh, capo, oggi non mi va di montare i parabrezza alla Panda, venga giù lei a farlo”. Interessante, ma poco realistico, diciamo, non si sa se più vicino agli antichi sogni di un’ipotetica “autonomia operaia” o a quelli Dickensiani dei vecchi padroni del vapore, scegliete voi. Naturalmente il concetto di disintermediazione, una volta portato alle estreme conseguenze, genererà un po’ di confusione. Perché affidarsi alla mediazione del chirurgo per quella dolorosa appendicite? Su, coraggio, disintermediate! Uno specchio, un coltello da cucina e fate da soli. Perché affidarsi alla mediazione del tranviere per andare da un posto all’altro della città? Basta disintermediare e guidare l’autobus un po’ per uno. Si potrebbe continuare all’infinito, ma insomma, il concetto è chiaro. Stupisce però che questa febbre da “disintermediazione” si alzi sempre quando si parla di lavoro e di sindacato. Che certo è un corpo intermedio con le sue lentezze e le sue “incrostazioni”, con tutte le sue magagne e difficoltà. E però stupisce questa voglia di “fare da sé”, di autoorganizzarsi, di “uno vale uno” proprio in un momento storico in cui chi lavora – chi abita le infinite varianti di un mondo del lavoro trasformato in giungla selvaggia – pare più indifeso che in passato, come ci insegna il Jobs act ( basta dare un’occhiata alle cifre dei licenziamenti “disciplinari”, così massicciamente sdoganati e prontamente attuati dalle aziende appena gliene è stata data l’occasione). Certo, il mondo del lavoro subisce (e ancor più subirà) notevoli scossoni, dalla tecnologia, dall’automazione e da altro ancora. Logica suggerirebbe quindi di rafforzare (e certo, migliorare, disincrostare, mi scuso per questo gergo da tecnico della lavatrice) i corpi intermedi che lo difendono, e non di mettere in campo un altro ostacolo al loro lavoro, che in questa fase storica è di difesa dei diritti, furbescamente confusi con privilegi, come se avere un posto di lavoro più o meno fisso fosse essere “casta”. Ora sarebbe lungo e noioso ripercorrere la storia del movimento dei lavoratori, ma è indubbio che i corpi intermedi (in italiano: i sindacati) abbiano detto la loro. Il sospetto, legittimo è che se i ragazzini di otto anni che a fine Ottocento lavoravano per dieci ore nelle filande (ancora Dickens e dintorni) avessero “disintermediato”, sarebbero ancora lì. Sabato alle 1. 1. Verona, alla Biblioteca civica, si parla di Torto marcio. Qui la recensione di Flavia Marani su L’Arena di Verona. Dopo tante morose (di Silvio), è il momento dei morosi (di Forza Italia). Ne parlerò con un certo pudore, perché le aziende che vanno male intristiscono sempre, si pensa ai dipendenti, ai loro figliuoli, alle ristrettezze di tante famiglie, insomma è brutto quando un’impresa economica cola a picco. Una parte del grosso debito dell’azienda è rappresentato dai morosi. Quelli che devono ancora i soldi per la candidatura del 2. I fulmini del tesoriere Alfredo Messina sono arrivati, la minaccia è che chi non paga non potrà più avere cariche elettive nel partito e non verrà ricandidato. Si immaginano dunque scene degne di Miseria e nobiltà: Silvio in redingote che va a riscuotere la pigione nei miseri appartamenti di deputati e senatori di Forza Italia e quelli che si fingono malati, indigenti, mostrano le scarpe sfondate, i volti emaciati dei bambini. Insomma Dickens con dentro Totò. Viene da pensare che non vogliano pagare, ‘sti morosi, perché il privilegio di far parte di quel grande partito che sognava la “rivoluzione liberale” (che imbarazzo…) non sembra più ’sto grande privilegio. Se i soffitti si crepano e la muffa avanza, perché continuare a pagare l’affitto? Ha una sua logica. Del resto, la storia dell’azienda Forza Italia pare un caso di scuola. Il brand era molto forte sul mercato, ai tempi del suo boom si canticchiavano le sue canzoncine pubblicitarie, i testimonial erano di primo livello nazionalpopolare e l’amministratore delegato sembrava un sovrano (retro)illuminato capace di trasformare il ferro in oro. Ora, il marchio sembra polveroso, vintage, si parla di Forza Italia come del mangianastri o del Moplen, cose passate che sì, fecero sognare, ma poi…Si comincia a non essere più all’avanguardia, a sbagliare la comunicazione, a vendere sempre lo stesso prodotto; si finisce a stare in piedi perché si spera nell’aumento di capitale o per non licenziare i dirigenti. Il tutto mentre milioni di clienti scoprono che anche ai tempi d’oro il prodotto venduto e comprato in gran quantità non era ‘sta gran cosa, anzi, la solita fuffa liberista in versione “il sole in tasca”, “basta crederci” e “bisogna essere ottimisti”. Tutte cose che se la giocano alla pari, con la fuffa di oggi, solo che ora si chiamano hashtag. Forza Italia è dunque alle prese col un bel problemino: cerca di restare azienda anche senza un capo che decide tutto e pensa a tutto, e che non ha più intenzione di affrontare da solo nuovi aumenti di capitale, mentre i morosi fanno gli gnorri e gli arretrati aumentano. Altri marchi famosi, come il Pd, attuano veloci ristrutturazioni: credono sia meglio un’azienda più piccola ma comandata a bacchetta dal suo amministratore delegato, che una grande azienda molto ramificata e complessa. La trasformazione del Pd nel Partito di Renzi è dunque un’altra fase nel mercato politico attuale: un caso di ristrutturazione dell’azienda in termini efficientisti, che assicuri al capo una guida decisa e personalistica. Si tenta di somigliare al più acerrimo concorrente, tipo quando Apple e Samsung si accusano a vicenda di rubarsi i brevetti, e mentre si tuona contro la struttura monarchica di Grillo, si lavora per imitarla, blog del Capo compreso. Nel mercato della politica italiana, quindi, c’è grande attenzione alle strutture, alle guerre di consigli di amministrazione e alla definizione delle linee di comando, e intanto il prodotto che si vende è un po’ sempre lo stesso, scadente, più mercato, meno diritti, mentre ci sarebbe un gran bisogno di un modello nuovo. Ho scritto questa recensione per Tutto Libri de La Stampa. Regola numero uno: se “è troppo bello per essere vero” meglio non fidarsi. Quando le capita l’occasione della vita, Alice Humphrey se lo ripete più e più volte, ma niente da fare, non funziona. Lei, esperta d’arte, disoccupata e testarda nel non voler godere dei privilegi famigliari e dell’aiuto del padre regista ricco e famoso, si vede offrire da uno sconosciuto la direzione di una galleria d’arte. Roba off- off, New York, caffè nei bicchieri di carta, metropolitana sferragliante, artisti maledetti, foto d’autore ma zozze forte, e tutto il campionario. Più i poliziotti e più – fin qui tutto bene – il morto stecchito. Che sarebbe poi il tizio mistero & fascino che le ha offerto l’affare della galleria. Il fascino finisce lì, morto ammazzato, ma il mistero continua, perché due sbirri della omicidi le mostrano una foto: lei che bacia il morto quand’era ancora vivo. Tutto chiaro e limpido, solo che lei il tizio non l’ha mai baciato, e che da lì comincia una sarabanda di prove a suo carico, indizi, piste, incastri, coincidenze e tracce, per cui Alice sembra la donna più colpevole del mondo, e l’ingiustizia faccia il suo corso. Comincia così – e continua pure peggio per la povera Alice – Una perfetta sconosciuta (Piemme) il nuovo thriller di Alafair Burke, stella americana del genere, una per cui si spella le mani, tra gli altri, Michael Connelly, come se non bastasse il suo lavoro di docente di diritto penale, la carriera di pubblico ministero e l’essere figlia di un altro giallista di rango, James Lee Burke. Carte in regola, insomma. L’autrice. Perché la sua protagonista, invece, pare un discreto disastro: un fratello mezzo tossico, un fidanzato sì- ma- anche- no, una famiglia con tanti segreti, e ora pure un’accusa di omicidio. Bingo. Se non vi basta, fa da contrappunto alla vicenda centrale il dramma di una ragazzina scomparsa. L’ultimo lavoro della Burke (che era andata benone con il precedente La ragazza del parco) è dunque un paziente e sapiente ricomporre tasselli, cercare tessere del puzzle, accatastare stati d’animo e docce fredde, perché ogni volta che Alice vede uno spiraglio di speranza, ecco un altro indizio che la inchioda. Ci vorrà una specie di angelo custode, agente dell’Fbi ma in rotta con il Bureau, per guidarla fuori dal labirinto, e per una che di mestiere ha fatto il pubblico ministero è un bel contrappasso scrivere una storia dove il buono gioca fuori dagli schemi mentre la polizia indaga con il paraocchi.
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